martedì 9 agosto 2011

Ai desideri protesi, che scaldano e abbracciano dentro.


Ieri sera. 
Sento sotto le dita un po’ tremolanti e un po’ emozionate, una fagiolina di un chilo e poco più tirare calci e pugni, a rimarcare la sua parte da primadonna tra tutti noi, raccolti e protesi verso quella pancia così perfetta, così rassicurante. 
E mi commuovo. Ok d’accordo, io mi commuovo anche per i documentari di National Geographic, ma tanto è. 
E più guardo la pancia tendersi e sobbalzare ad ogni prepotente capriola, più sento l’atavico e viscerale desiderio di sentirli dentro di me, quei tum!-pow!-bam!, un giorno. 
Un figlio. 
Nella proiezione utopica, lo vedo. Le dita grassocce e umide, coi buchini al posto delle nocche. Lo vedo, i resti della pappa sparpagliati ovunque, tranne che sull’inutile, microscopico bavaglino. Giallo, con un elefantino di ciniglia bianco al centro. Lo vedo, il sorriso tranquillo e soddisfatto di chi ha appena divorato la pastina e lo yogurt, l’occhio furbo e subdolo di chi pianterà una gnola strappa-cuore e strappa-pazienza perché non vuole essere messo a nanna. Lo vedo, così micro e così tutto. Vedo in lui le mie fragilità e la mia impazienza. Il contraddittorio amore per il caos intorno e per uno spazio e un tempo dove stare solo con sé. Vedo in lui la necessità bruciante di essere amato e di amare. Un’insicurezza silenziosa che gli avvolge la pancia. Vedo in lui lo spirito positivo e razionalmente impulsivo, la risata vera e sfrenata. La testarda determinazione, lo sguardo attento. Vedo in lui l’indipendenza e la voglia di andare. Che mi farà male, ma che sperò capirò e sarò in grado di appoggiare senza musi lunghi e senza silenzi.
Un figlio. Un giorno.

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